La società circolare e la coscienza di luogo

Da Monitor di VeneziePost | Non una moda ecologica, ma il vero e proprio segno di una nuova fase storica ed economica: è così che il sociologo Aldo Bonomi, fondatore e direttore di Aaster, vede la green economy. Un’espressione di cui gli preme “scomporre e ricomporre la retorica”, per dimostrare questa affermazione.
Dottor Bonomi, la green economy sembra ormai essersi scrollata di dosso l’etichetta di semplice “moda”, ed essere entrata a pieno titolo nel novero dei fattori che fanno la competitività di un Paese: condivide questa visione?
«Trovo che il tema della green economy induca a due grandi riflessioni. La prima nasce dall’agglomerato urbano che copre pressoché tutto il Nord Italia: siamo in una situazione in cui l’apice della modernità del sistema Paese si trova a fare la danza della pioggia a causa delle polveri sottili, e confrontarsi con una serie di altri problemi dati dall’inquinamento. Appare quindi chiaro che la questione non è solo ecologica ma anche economica, perché solo ipotizzando un mutamento dei sistemi produttivi e urbani, della logistica e dei trasporti si può affrontare il problema. La seconda nasce dall’evoluzione del sistema sociale ed economico. Nel Novecento eravamo abituati ad uno schema di società verticale prodotto dal fordismo: quello che ha generato per intenderci Porto Marghera, con capisaldi la grande impresa e la classe operaia. Poi si è passati alla società orizzontale con la proliferazione di piccole imprese, alla fabbrica diffusa, in cui si entra ed esce in virtù dell’avere o meno una partita Iva. La green economy rimanda invece al passaggio in atto ad una società circolare in cui il concetto cardine è la sharing economy, la collaborazione per risolvere i problemi: che sia il riciclo e riuso nel caso dei rifiuti, o il bike o car sharing nel caso dei trasporti. Il capitalismo ingloba il concetto di limite non per frenarsi, ma per produrre un modello di sviluppo e di manifattura compatibile in cui l’impresa incorpora l’innovazione per cambiare cosa e come produce. Parlare di green economy, quindi, significa andare alle radici del nostro sistema economico e del nostro territorio».

Perché proprio in Italia la green economy sta conoscendo questo sviluppo così significativo?
«L’Italia, essendo per tradizione un Paese meno fordista di altri, ha colto meglio questa nuova dimensione. Per quanto la green economy sia spesso stata confusa con le normative ambientali “che l’Europa ci impone”, le imprese hanno capito che innovare in questo senso è questione non di leggi ma di competitività. Poi c’è da tenere in considerazione il fattore culturale: se prima c’era la coscienza di classe o la coscienza d’impresa, ora è importante la coscienza di luogo. Che non è un vezzo ecologista, ma la consapevolezza che più un territorio si tutela sotto il profilo della qualità dell’ambiente e della vita, più è attrattivo per clienti e investitori: per cui è interesse delle imprese lavorare in un ambiente ecologicamente competitivo».

Quali sono i punti critici che rimangono da affrontare per un pieno sviluppo della green economy?
«Come sempre, nei grandi cicli di cambiamento, bisogna guardare a quelli che sono i poli di questi processi. Il primo è il capitalismo delle reti, ossia le funzioni di servizio che innervano il territorio, come ferrovie e autostrade; il secondo è quello delle utility e multiutility dell’energia, dei servizi e dei trasporti. Non ci sarà cambiamento vero e duraturo se non lo porteranno avanti per primi i grandi gruppi in questi settori. Il terzo polo è quello delle medie imprese, leader di questi cambiamenti: dalla loro capacità di trainare anche tutto il resto della nostra “impresa diffusa” dipenderà buona parte del successo di questa evoluzione».

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